Guerra sì o guerra non? Andare o non andare in Libia?

A cura del prof. GianPaolo Ferraioli

È il tema del giorno: lo sappiamo tutti. Giornali, televisioni, chiacchiere al bar: tutti si chiedono se l’Italia e gli alleati, in primo luogo la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, si stanno preparando a un intervento in Libia nel quale, addirittura, il nostro Paese dovrebbe avere la posizione di comando. L’unico che ancora non si è pronunciato chiaramente su questo argomento è però proprio il nostro governo, quando invece si legge ormai, specie sul Corriere della Sera, che tutto è già deciso e che – sembra – gli alleati non stanno aspettando altro che l’Italia ponga fine alle sue tergiversazioni per dare vita a quella che sarà – diciamolo chiaramente – una guerra. Una guerra certo ai fini della ricostruzione di una nazione, ma pur sempre una guerra, seppure fatta per avviare finalmente la Libia allo sviluppo nella pace e nella democrazia, senza più caos e fondamentalismi, senza più divisioni tra clan e senza più, soprattutto, la presenza minacciosa dell’Isis/Daesh. D’altro canto – anche questo bisogna dirlo chiaramente -, se pure ci sarà “l’invito” del governo libico all’Italia e alle nazioni alleate di andare in Libia, i termini del discorso in concreto non cambieranno: sempre di un intervento armato si tratterà, non meno costoso in termini di vite umane, anche perché quel preteso governo libico conta meno di niente e, quindi, il suo “invito” non risparmierà certo all’Italia e alle nazioni alleate lo scontro con tutte le fazioni armate libiche, in primo luogo quelle temibilissime formate dagli uomini del califfo.

Il punto, comunque, non è tanto se si andrà o no in Libia. Il punto è piuttosto convincersi tutti che, se si andrà, lo si dovrà fare con coraggio e determinazione, convinti che si dovrà restare in Libia tutto il tempo necessario per ricostruire quella nazione e avviarla alla stabilità: un anno, cinque anni, dieci anni, cinquanta anni. In questo senso, guerre lampo con risultati pronti e ad effetto non sono possibili. Qui si tratta di assistere un popolo nel cammino verso la democrazia e la pace; un popolo che questi due fattori, assieme, non li ha mai sperimentati in tutta la sua storia. L’Italia e le nazioni alleate, perciò, dovranno rendersi conto che il compito che si assumeranno non sarà breve e facile, e sicuramente sarà accompagnato da grossi costi umani e materiali pure per loro. Ma il premio potrà essere altissimo: la Libia quale esperimento, riuscito, di stabilità e democrazia nel mondo arabo/mediterraneo/mediorientale; non più oggetto delle mire dei fondamentalisti che si coprono sotto il vessillo nero della morte; non più feudo dei vari “signori della guerra” che vogliono alimentare il caos per loro fini personali; non più sponda da dove partono milioni di disperati in cerca di fortuna e miglior vita in un’Europa che, ormai, sta smarrendo il senso della propria unità e non riesce a uscire da una crisi economica quasi decennale.

obama-bushMa sono pronte l’Italia e le nazioni alleate a questa opera di nation-building, che potrebbe prolungarsi anche per lo spazio di più di una generazione? Sono pronte a non ripetere l’errore di Obama, che lasciando il lavoro a metà, come nel caso iracheno, ha vanificato tutti i frutti raggiunti fino al 2008, consegnandoci un Medio Oriente, e quindi un mondo, perfino più insicuro di quanto fosse prima? Sono pronte a respingere le accuse becere di neocolonialismo, dimostrando con i fatti che, in Libia, vogliono solo ridare speranza a un popolo?

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