Gli eroi loro malgrado
In ricordo di Peppino Impastato e di Felicia, sua madre
Alcuni avvenimenti di questi giorni mi hanno riportato alla mente la parte più oscura e triste della mia Sicilia.
Per prima è giunta la notizia della morte di Agnese Borsellino, moglie schiva e riservata di Paolo, vittima di mafia.
Poi, appena un giorno dopo, è arrivato l’annuncio della morte di Giulio Andreotti, storico uomo di Stato su cui si sono addensate, negli anni passati, ombre di frequentazioni e di atti mafiosi.
Ancora una volta in macchina, ancora una volta in viaggio, rifletto sul fatto che questi sono i giorni in cui trentacinque anni fa, esattamente nella notte tra l’otto e il nove maggio, veniva ucciso dalla mafia Peppino Impastato.
La mafia, sempre la mafia che determina, tra l’altro, l’esistenza di eroi.
“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” scrisse Bertolt Brecht.
Non credo che Peppino avesse in mente di diventare un eroe, non credo che ne avesse voglia.
Mi piace pensare che all’inizio fosse soltanto un ragazzo carico di tutto l’entusiasmo dei suoi pochi anni. Forse soltanto non aveva quella capacità di filtro e di autocensura che consente agli uomini di tutelarsi, che quando è troppa rischia di diventare ipocrisia e che quando passa il limite diventa codardia. Non aveva capacità di diplomazia, forse non ne voleva, non ne aveva bisogno.
I suoi modi erano diretti, caratterizzati da un’ironia che diventava ferocia agli occhi e alle orecchie di coloro ai quali tale ironia era indirizzata.
“Tano Seduto” era diventato l’esilarante personaggio di Radio Out, ridicolizzato e divenuto la caricatura di se stesso.
Don Tano, Tano Badalamenti, Tano Seduto, non poteva sopportare un tale scherno, soprattutto perché veniva dal figlio di uno dei suoi uomini.
Peppino denunciava e si divertiva, o meglio, io voglio credere che si divertisse da pazzi, denunciando. Almeno, così posso immaginare che sia morto contento, anche se è morto ammazzato, dilaniato dal tritolo lungo la ferrovia. Di certo è morto senza avere né ombre né dubbi su se stesso, sulla propria integrità, sul proprio senso di giustizia.
Altra storia è quella di Felicia. Lei non si divertiva affatto. La sua sofferenza deve essere stata lacerante, stritolata come si trovava tra un sistema rigidamente codificato e imbevuto di regole mafiose e l’amore per un figlio che – lei lo sapeva – aveva ragione, ma che rischiava la vita a ogni istante.
Donna coraggiosa, Felicia. Ha vissuto con malcelata insofferenza la sua vita di donna sottomessa al marito, di moglie di un uomo di cosa nostra. Ha difeso suo figlio quando il padre lo ha cacciato di casa, si è costituita parte civile nel processo per la morte del suo ragazzo, ha lottato, fortemente voluto e ottenuto la condanna di Badalamenti. Ha sofferto, ma non si è piegata.
Non perdo il vizio di stare a immaginare, penso tra me e me; perché in realtà non so nulla di ciò che passasse per la testa e per il cuore di quello che chiamo l’indomito ragazzo di Cinisi, non so nulla di ciò che provasse sua madre. È tutto talmente complesso, e la nostra è una terra di tante e tali contraddizioni, che non si può ridurre tutto in due parole che hanno il sapore di considerazioni spicciole.
Il coraggio di quel ragazzo e di quella donna però c’era tutto, ed è innegabile.
Una cosa ancora mi piace pensare: che Peppino non sarebbe stato Peppino se Felicia non fosse stata sua madre.
Due forme diverse di eroismo, due forme diverse di coraggio che si sono intessute e si sono influenzate a vicenda per diventare, entrambe e insieme, una della pagine più belle, più cariche di dignità e più dolorose della nostra storia.
Anna Burgio
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