Affascinante l’opera di Danilo Dolci, autenticamente pedagogica e formativa.
Un suo libro, “Dal Trasmettere Al Comunicare”, andrebbe adottato nelle scuole italiane se non altro per formare giovani liberi, che amano se stessi e vogliono produrre un cambiamento nella società in cui vivono. Altro che orticello manzoniano, reo, a parer mio, di averci confinato nella sola nostra dimensione privata familiare, allontanandoci in molti casi dalla cosa pubblica. Il modello razionalista manzoniano forma certamente all’uso della ragione ma non spinge a cambiare le cose, perché ci fa accomodare nelle pieghe del sistema, consapevoli, da novelli illuministi, che cambiarlo è impresa tanto ardua quanto poco praticabile. Renzo, e non certamente il Renzi nazionale, dopo aver provato a cambiare le cose, si rende conto che non ne vale la pena. Ma chi ce lo fa fare?
Dolci, invece, soprannominato il Gandhi della Sicilia, denuncia limiti e distorsioni del sistema affaristico clientelare e delle logiche commerciali cui soggiaciono le moderne tecnologie e i mezzi di comunicazione, che di massa non sono. Così come è improprio parlare di comunicazione con un medium come la TV, trattandosi propriamente di trasmissione da uno a molti, unidirezionale. Procediamo con ordine e apprezziamo la validità e le suggestioni delle riflessioni di Dolci nel loro prodursi accogliendo alcune delle voci che compongono la sua opera.
“Ma questo cosa è?” si domanda Danilo Dolci, intendendo con ciò recuperare la genuinità e la semplicità del domandare, con grande sensibilità al contesto di vita in cui avviene la comunicazione e acquista senso la parola. La maieutica socratica lo assiste in questo: ammira in un contadino il suo essere in “splendido rapporto con la fonte della sua vita”, si sorprende del modo suo semplice di intendere un principio di comunicazione impostata su base egualitaria: mettere il proprio interlocutore a proprio agio, su di un piano di eguaglianza, perché, osserva Dolci, un “rapporto esclusivamente, continuativamente unidirezionale, non è vitale.” Il picciòlo, ad esempio, non è in rapporto di comunicazione unidirezionale dalla pianta col frutto che sostiene e nutre, ovvero in un rapporto di dominazione dall’alto verso il basso. Il frutto non va inteso cioè soltanto come terminale del picciòlo in quanto comunica con il resto della pianta come nella risposta illuminante fornita al nostro: “Dicono che dal fiore il frutticino per crescere sommuove via via non solo le foglie e le ramaglie attorno, ma tutta la pianta, fino alle radici”.
C’è modo e modo di osservare: gli stessi occhi possono essere, osserva Dolci, catene o strumenti di liberazione e non esiste sguardo ingenuo o innocente che non condizioni in qualche modo l’altro, perché “gli sguardi condizionano” non soltanto in senso negativo, ma anche in modo positivo qualora siano “liberatori di fiducia e di crescita”. L’autore è consapevole che l’osservazione stessa dei rapporti in qualche modo li condiziona e che, per scoprire, è necessario “liberarsi da ataviche, preordinate e pur invisibili, imposizioni – e liberarsi dall’individuale, interiore miopia”.
«L’esperienza di esprimersi dal profondo è ricerca e costruzione che può essere propiziata se un contesto suscita fiducia. Uno può esprimersi naturalmente solo in un contesto rispettosamente creativo: dal rapporto più semplice al più complesso. Per esprimersi vivo, e dunque crescere, ognuno necessita una struttura in cui partecipa – sia pur dialetticamente – a inventare le condizioni del comunicare». Condizione per favorire l’esprimersi dell’altro è infatti “un rispetto che riesce a intendere proprio in quanto umilmente sensibile”.
Quale esempio di struttura maieutica, i partecipanti al convegno sul tema Educazione, Pace, cambiamento svoltosi in San Marino nel 1986, indicarono, su proposta di Dolci, alcune condizioni da realizzare perché una struttura possa favorire la creatività di ognuno e del gruppo. La struttura ideale dovrebbe consentire di:
…guardare, cercando di vedere /
ascoltare, esprimerci, dialogare /
e pur restare in silenzio.
L’ideale sarebbe infatti
“una struttura in cui maturi /
la fiducia in sé e negli altri /
il rispetto reciproco / un confronto che valorizzi le diversità, i processi dialettici, i modi di «altri» di esprimersi, esplicitando le regole /
il reciproco adattamento creativo”.
Su queste basi andrebbero rivisitati i metodi scolastici e aboliti certi preconcetti sui ragazzi, definiti svogliati, timidi, alla stregua di “imbuti vuoti da riempire”; invece, come osserva Rosellina, una delle voci del suo libro, “gli altri forse dovremmo incominciare a guardarli diversamente, a valorizzarli meglio […]. Lavorando insieme, è come se mi si aprissero altri occhi, vedo di più, vedo meglio il mondo”.
«Il dominio della coscienza» è il titolo di un significativo capitolo in cui Dolci sottolinea il predominio del soggetto chiuso, accentratore, che ingloba l’altro allo scopo di controllarlo o dominarlo, non di aprirsi all’ascolto autentico di un TU. Ecco che in ambito scolastico dietro norme, circolari e consuetudine, si annida la paura non soltanto del nuovo: «paura di liberarci dai rispettivi ruoli, paura di schiudere il proprio guscio, paura di non riuscire a comunicare inesperti come siamo a liberare energie gli uni per gli altri». Per questo, si sottolinea l’importanza di un’autentica disponibilità verso gli altri, perché senza questa apertura non potrà mai formarsi il vero educatore: “se si lascia ai ragazzi il tempo di esprimersi, raccontarsi, essere vivi partecipando, un vulcano di stimoli arriva”.
Dolci condivide l’importanza di un rapporto tra il piccolo e l’adulto reciprocamente attivo che sia fecondo, per scongiurare due conseguenze negative: “il bambino nella troppa lunga infanzia si assuefa alla dipendenza e l’adulto si sclerotizza”. La difficoltà è proprio quella di concepire un rapporto a due o la semplice esistenza dell’altro, “in un mondo che si estenua in liti gare dispetti risse razzie e rappresaglie, nel diverso manifestarsi della pretesa di dominare, Emily annota uno e uno – sono uno/ non basta il due / insegnato a scuola”.
Quali esempi di espressioni linguistiche del dominio, Dolci cita i documenti stilati dalle pubbliche autorità negli anni ’60 per descrivere il comportamento di alcuni soggetti ritenuti pericolosi, accusati di “inculcare” determinate idee, di essere impegnati affinché gli altri “si trovino alla propria mercé”, attribuendo, quindi, ad altri il loro stesso modo di pensare. Anche il sistema clientelare mafioso nei suoi attacchi, osserva Dolci, pilota le sue disinformazioni “in modo che la moltitudine dei parassiti aggredisca come appestatore chi è più impegnato a liberarla smascherando il sistema”.
Dolci osserva come l’utilizzo del termine “massa” è impropriamente utilizzato perché funzionale alla logica del dominio, di adorniana memoria, che concepisce i molti, non come persone con le loro peculiarità e differenze, ma come aggregati di materia inerte cui propalare idee preconcette o prodotti di consumo. Infatti, “per potere dominare facilmente occorre ridurre la gente a brulicanti cumuli. Altro è coesione (cohaerere=essere attaccato), altro è rapporto organico o reciproco adattamento creativo”. Ciononostante masse sono continuamente generate o concepite dalla logica del dominio non soltanto sul luogo di lavoro, ma anche nei contesti formativi, costipando, ad esempio, banchi nelle scuole, tutto ciò concorre a non favorire gli incontri tra i lontani e impedire l’imparare a conoscersi.
Se il termine massa è fuorviante, ancor più ingannevole è l’espressione comunicazioni di massa. Dette comunicazioni di massa, secondo Dolci, non possono esistere in quanto, nel caso di radio e Tv, si tratta piuttosto di trasmissioni unidirezionali da uno a molti. I destinatari della trasmissione sono peraltro ridotti ad una condizione di passività, perché così vogliono le logiche aziendali e pubblicitarie finalizzate a creare slogan e vendere prodotti ad un bersaglio di mercato. Riferendosi, significativamente, alla cosiddetta “cultura di massa”, Dolci afferma che “tutto quello che condiziona massivamente la gente è contro natura, tossico”. Il rischio avvertito, nell’eliminare i poli del rapporto in una comunicazione, è di mercificazione delle stesse creature, ridotte a numeri.
Contro l’eccesso di individualismo, l’unilateralità di un rapporto malato, funzionale al dominio, Dolci riafferma la centralità e il potere della persona, come bene esprime Orlando da Parma, una delle voci del suo libro: «ogni persona ha un potere da mettere al servizio degli altri e di cui gli altri hanno bisogno […]. Mentre capacità, forza, sostegno sicuro sono sinonimi che esprimono la valenza positiva del potere, il dominio è potere-retaggio disumanizzante per chi lo detiene e per chi lo subisce».
Dolci cita San Francesco e Mao quali espressioni di “un profondamente autentico amore”. Occorre, dice Mao, «comprensione reciproca, franchezza, amicizia, scambio di informazioni e di punti di vista, consultarsi.. essere allievi prima che maestri… comunicarsi reciprocamente insufficienze e errori… trovare un linguaggio comune… sviluppare l’iniziativa e la forza creativa… l’amministrazione fatta alla luce del giorno, controllata da chiunque… garantire a ogni livello il sistema delle riunioni». Lo stesso ideogramma cinese, citato nel testo ed impropriamente tradotto col termine massa, già contiene in sé un proprio dinamismo interno tale da prefigurare una transizione verso nuove forme di comunità, a differenza del termine “massa”, caro al dominio, massa che è caratterizzata “dalla mancanza di reciproco innovarsi tra particella e particella, e tra la particella e il tutto”.
Per imparare a vedere oltre, argomenta Dolci, può essere vitale il potere “liberatorio” della poesia che “non costringe né impone, ma corrode e sgretola le croste del dominio, germogliando dal profondo il misterioso necessario ancora inesistente”.
L’autore chiarisce più avanti il significato più autentico della parola comunicare tramite il significativo titolo scelto per un capitolo “Mettere qualcosa in comune”, in esso criticando il facile entusiasmo che ammanta la rivoluzione informatica tesa a favorire, sulla carta, una più ampia disponibilità di contatti e di informazioni, ma, si chiede il nostro, “come è usata sovente, non accelera e potenzia vecchie strategie?” Pur riconoscendo l’esistenza di sistemi vettoriali positivi, tanto più vitali quanto più presuppongono possibili scelte e rapporti tendenti alla reciprocità, nondimeno Dolci sostiene che è falso chiamare comunicazioni le trasmissioni. Infatti, «il comunicare presuppone partecipazione personalizzata, attiva nell’esprimere e al contempo nell’ascoltare, nel ricevere».
Cogliere i limiti di una società malata, perché disorganica e tendente alla separazione tra le parti e il tutto, è scoprire l’intima struttura del comunicare e “smascherare i moderni meccanismi virali che, soffocando la creatività personale e di gruppo, spengono la possibile creatività del mondo”.
Trasmettere/Comunicare, Dominio/Potere, Massa/Organismo, Indottrinamento/ Educare sono coppie di parole agli antipodi tramite le quali Dolci esprime due diverse visioni del mondo, l’uno malato con un unico vettore unidirezionale che non genera vincoli di solidarietà e compromette i rapporti tra le parti; l’altro, invece, vitale, organico e tendente al reciproco confronto-incontro tra le persone.
Il dominio tende ad un trasmettere unidirezionale passivizzante, mentre il comunicare esprime un reciproco adattamento creativo tra gli esseri. Al trasmettere è dunque da preferire il comunicare, al posto di massa il termine più appropriato è quello di organismo, al dominio è da sostituire il potere della persona, quale centro di amore e di relazioni. I centri di dominio, quali i sistemi clientelari-mafioso e certi programmi televisivi, “cercano l’appoggio, non lo sviluppo autonomo e organizzato delle persone”, come sostiene Angela, una delle voci del libro, o Luisella: “in ambedue i sistemi un centro pensa e decide … lo scopo è lo stesso: il proprio dominio, il proprio denaro”.
L’autentico senso del comunicare è quello di mettere qualcosa in comune, far vita comune; il saper cogliere la differenza ha in sé una carica trasformativa della realtà dirompente, tale da spezzare le catene del dominio e portare ad un modo rinnovato di pace, infatti, sostiene Dolci: “Se ognuno al mondo sapesse distinguere il trasmettere dal comunicare il mondo sarebbe diverso”.
Molto attuale il pensiero di pace di Dolci riguardo al tempo presente. Anche nel mondo islamico esistono voci critiche di filosofi che inneggiano all’apertura e alla comunicazione per contrastare pericolose forme di chiusura e di disconoscimento dell’altro. Il filosofo Abdennour Bidar avverte il bisogno di sensibilizzare mondo musulmano e non solo, onde evitare ogni forma di chiusura e quei sanguinosi episodi di terrorismo di matrice islamista, di cui i recentissimi attentati jihadisti sono espressione. Bidar così scrive nel suo articolo “Dissociarsi non basta. Chi crede in Allah dimostri di essere un cittadino d’Europa”, pubblicato su Repubblica il 20 novembre 2015, significativamente inneggiando a quei rapporti di fraternità tra di noi, con gli altri e l’universo, i soli ingredienti in grado di porre fine ad una spirale di odio senza precedenti e di violenza fine soltanto a stessa:
«Io chiedo solennemente ai musulmani e alle musulmane europee di non restare in disparte, di non cedere alla tentazione di rinchiudersi in se stessi nella difesa esclusiva dei propri interessi. Che rispondano ai sospetti con l’apertura. Che rispondano al rigetto con un contributo. Che rispondano al male col bene, come consiglia il Corano. Che riconquistino il rispetto e la considerazione di tutti unendosi intellettualmente e umanamente, ovunque sia possibile, e con un impegno sociale e politico quotidiano, a tutti coloro che rifiutano un mondo egoista nel quale si vive separati in comunità chiuse e in tribù, e nel quale l’uomo si trasforma in lupo che si avventa contro altri uomini. Se noi persisteremo a vivere in regime di “scollegamento dal mondo”, dal Daesh partirà un veleno che si infiltrerà in ogni nostra fessura e in tutte le ferite dei nostri rapporti. Adoperiamoci dunque per unirci. Torniamo a stringere i nostri rapporti basati sulla fraternità e a Daesh non resterà a disposizione, per dividerci, neppure una piccola fessura. Torniamo a tessere i rapporti di fraternità tra di noi, con gli altri, con la natura e l’universo. Torniamo a spiritualizzare il mondo e avremo una possibilità di guarirlo dalla sue sofferenze».
Per educare alla pace occorre «fornire a ognuno conoscenze serie e aggiornate» ed educare alla complessità del reale, vuol dire cioè «attivare in chi apprende i processi mentali per i quali le conoscenze si acquisiscono e verificano». Il fine è quello di concepire modelli di vita organici, non individui isolati che non entrano in relazione e in simbiosi con gli altri, ciò perché la creatura indipendente, a sé, non esiste né può esistere ma sempre come centro di complesse relazioni.
Affido la conclusione di questo mio scritto alle parole di Dolci davvero illuminanti per far comprendere cosa significhi comunicazione: «Chi comunica dice sé, e si dà attento all’altro, agli altri, mentre riceve. Comunicare coinvolge, rischia, richiede pure coraggio: talora sconvolge. Essenzialmente nonviolento è il comunicare, pur silenzioso». Come infatti Cornelia puntualizza: “non è tanto necessario parlare quanto maturarci, dentro, al rapporto: occorre imparare a guardarsi, cercando sinceramente gli occhi degli altri”, poiché essenziale nel comunicare “risulta il reciproco aprirsi di creature (integre, sincere, creative) a riiintegrarsi (parzialmente o totalmente) in processi fecondanti”.
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