Del tempo cupo e degli aquiloni
Non è un buon periodo.
Da giorni il tempo ci concede un cielo cupo e un’aria strana, gialla di sabbia e di scirocco, quasi rarefatta nonostante le raffiche di vento.
No, non è decisamente un buon periodo.
È un tempo, per me, fatto di attese, di tensioni, di ansie, di aspettative e di timori. Poi mi guardo attorno e trovo gli occhi assorti, le mani nervose di persone a me care – più d’una purtroppo – che raccontano di delicatissimi momenti di disagio e di sofferenza.
Le parole mi muoiono in gola, non ho voglia di scrivere.
Eppure il 23 maggio è una data scolpita nella memoria, non può passare in silenzio solo perché le mie umane vicende mi rendono per ora distratta.
Ma le parole mi muoiono in gola.
Ecco qui, dunque, una riflessione dello scorso anno sul giorno e sulla memoria, una riflessione che riporto intatta senza nemmeno cambiare le date, anche perché, a parte il fatto che è trascorso un anno in più, nulla è cambiato.
Adesso, come un anno fa e come sempre, a me Falcone ricorda gli aquiloni.
23 maggio. Ancora una volta.
Stavolta sono vent’anni. Vent’anni fa io c’ero, ero già adulta, e consapevole. Anch’io ho provato sgomento, anch’io ho pianto, anch’io ho tremato. Anch’io ho sperato, come tanti, che dalle ceneri di Capaci, e poi dalle macerie di via D’Amelio, potesse sorgere, almeno, la forza della ribellione, la rinascita.
Da quella speranza nacque l’idea, assieme a un altro folle idealista come me, di fare diventare il ricordo di quella data non una commemorazione luttuosa, ma una festa, la festa degli aquiloni. Per due anni, il 23 maggio, bambini e scuole di due paesi diversi si incontrarono, costruendo e sventolando insieme aquiloni colorati, simbolo di speranza e di volo libero. Bambini, colori, speranza, libertà, perché la memoria di Giovanni, Francesca, Vito, Rocco, Antonio fosse e restasse materia viva e fertile, non solo ricordo e targhe.Stavolta sono vent’anni. Mi colpisce la risonanza mediatica data all’evento. Ricordo di anni in cui il 23 maggio passava sotto tono, sotto silenzio. Voglio pensare che si tratti di una coscienza rinnovata, di una nuova spinta al cambiamento. I tempi che viviamo, però, mi fanno temere che la cifra tonda dei vent’anni abbia determinato – come spesso accade – atteggiamenti sottesi da qualcosa di simile al “mi corre l’obbligo” di ipocrita matrice; mi fanno temere che i tanti si “riempiano la bocca di sputazza”, come diceva qualcuno tanto tempo fa, mentre chi continua a fare il proprio dovere rischia, testimonia e grida, a volte in silenzio, il suo desiderio di giustizia.
Temo. Ma non voglio credere. Del resto, l’importante è che se ne parli”.Anna Burgio