L’estate è scoppiata in maniera violenta, come sa fare soprattutto da queste parti.
Il viaggio non pesa, per mia grande fortuna ho l’automobile con l’aria condizionata. L’asfalto ondeggia, liquido e lucido, mentre la macchina scivola tranquilla nel percorso, assolato e arido, del ritorno verso casa.
Ripenso alla scorsa domenica, a dove sono stata. Il luogo è un paese dell’entroterra, piccolo e decisamente deserto. Difficile trovare un posto dove mangiare. Ci indicano due ristoranti lungo la strada, ma il secondo è il migliore, ci consigliano. Vada per il secondo, allora. Entriamo.
Una donna si avvicina indolente e lenta.
“Volete pasta?” chiede.
“Com’è?” ci informiamo.
La risposta è laconica.
“Al sugo, al ragù, alle melanzane, alla calabrisella”.
Ho passato anni e anni in Calabria per venire a mangiare la pasta alla calabrisella in Sicilia, penso. Eppure è quella che scelgo. A scatola chiusa, perché non sappiamo nemmeno di che formato di pasta si tratti.
“E volete pure il secondo?”
Sorrido. È tutto molto surreale: il locale vuoto di clienti a parte noi; la donna che si trascina dal nostro tavolo allo schermo della tv, dalla quale una telenovela gracchia; il caldo che toglie il respiro; in un angolo il vecchio proprietario – probabilmente il padre della donna – che si addormenta aspettando il suo piatto davanti al tavolo con la brocca del vino e la bottiglia dell’acqua minerale; dalla porta della cucina la testa della vecchia proprietaria – probabilmente la madre della donna – che fa capolino per poi rientrare a spignattare.
Ci ripenso adesso, durante il mio viaggio di ritorno a casa, e mi accorgo che era tutto molto surreale, ma anche molto semplice, di quella semplicità perduta cui non siamo più abituati.
Abbiamo le cose, e già solo per questo le diamo per scontate. Siamo e rappresentiamo noi stessi, e crediamo di possedere il mondo.
I miei viaggi, ad esempio. Sono viaggi per lavoro, ripetitivi, stancanti. La mia macchina è un’utilitaria, non è certo la quintessenza del comfort; però ha l’aria condizionata, ed io mi posso permettere di tornare a casa, alle due del pomeriggio, sotto il picco del sole dell’estate che imperversa.
Ci sono viaggi e viaggi, come ci sono vite e vite.
Sono ricominciati, con il bel tempo, i viaggi dei barconi che approdano senza sosta sulle nostre belle spiagge. Portano vivi e morti. Portano persone che non hanno nulla di diverso da me, a parte il colore della pelle, e quello non è certo importante. Hanno viaggiato e viaggiano senz’aria condizionata. Hanno viaggiato e viaggiano stretti l’uno all’altro, in mezzo a stenti e a paura. Non viaggiano per andare al lavoro, viaggiano nella speranza di sopravvivere. E invece a volte arrivano già morti, quando arrivano, quando non se li mangia il mare.
Saranno buoni o cattivi, onesti o delinquenti, esattamente come i nostri concittadini che fanno la fila con noi alla posta o al supermercato, come i nostri vicini di casa, come i nostri colleghi di lavoro. Ma, buoni o cattivi, fanno un tipo di viaggio che non è augurabile a nessuno.
Sono quasi arrivata a casa. Il climatizzatore della mia automobile mi fa vergognare un po’, ma mi da anche un sollievo che non dipende solo dall’aria fresca. Il mio Paese vive tempi difficili, io personalmente vivo tempi difficili, ma – e so per certo che il mio non è buonismo acritico – ci sono nella vita piccole grandi fortune che andrebbero apprezzate un po’ di più.
Ripenso alla pasta alla calabrisella di qualche giorno fa, alla semplicità con cui mi è stata proposta e poi servita, e concludo che era proprio buona.
Anna Burgio
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