“Il tempo delle lacrime” o cultura dell’immagine fine a se stessa…

Il tempo delle lacrime

carlo-alberto-dalla-chiesaSono tante le cose che negli ultimi giorni mi hanno dato da ragionare e da riflettere: dal clamore mediatico sulla fuga e successivo arresto di Corona, alla doverosa e sentita celebrazione della Giornata della Memoria, alle parole di elogio di Berlusconi per la mussoliniana opera, fatte salve – s’intende – le leggi razziali.
Tra le altre, c’è anche una notizia un po’ datata: Giovanna Maria Iurato, ex prefetto de L’Aquila, sarebbe stata intercettata al telefono mentre rideva, raccontando che, il giorno del suo insediamento nella città terremotata, aveva versato false lacrime davanti alla casa dello studente distrutta dal sisma.
Ad attirare la mia attenzione non è la veridicità dell’episodio, che potrebbe anche essere non vero o diversamente interpretabile. Medito, invece, sul fatto che accadimenti come questo sono senz’altro verosimili, magari in altri contesti o con altri personaggi.
Pure questa è la nostra attualità, rimugino. Rischiamo di imbatterci, ogni giorno, in lacrime finte, in sghignazzate vere, nel disprezzo non solo per gli esseri umani e per le loro umane sofferenze, ma persino per il vivere civile, per le regole che dovrebbero costituire le basi portanti di un sistema sociale.
Negli ultimi decenni siamo scivolati, quasi senza rendercene conto, nella cultura dell’immagine fine a se stessa: ciò che conta è quel che appare, non quel che è. E così, anche una delle manifestazioni più intense e vere dell’emotività umana, il pianto, viene usata e abusata, purché sia a favore di telecamera. Piangono tutti, i ministri, i presidenti, i prefetti; il dubbio che non molto ci sia di vero sorge, eccome.
La stessa cultura dell’immagine spinge anche tale Andrea De Martino – un altro prefetto! – a sgridare, nell’ottobre del 2012, il prete anticamorra don Maurizio Praticiello, perché si è permesso di chiamare semplicemente “signora” la sua collega Carmela Pagano, prefetto di Caserta.
La forma è sostanza, si dice, e anch’io ne sono convinta. Se però il formalismo di un appellativo supera e sovrasta l’opera meritoria di un prete che rischia la propria vita per il bene comune, allora davvero c’è qualcosa che non va.

Cerco su Wikipedia: “La Prefettura è l’articolazione territoriale del Ministero dell’Interno, retto da un suo funzionario detto Prefetto, che ha competenze in ambito generalmente provinciale in varie materie tese a coordinare la vita della comunità locale, ordine pubblico, immigrazione, ambito economico, elettorale, ma soprattutto rappresenta il Governo in ambito locale.”
Con il mio modo a volte semplice di ragionare – “alla fimminina” avrebbe detto mia nonna – mi chiedo quale sia la logica. Se chi ha il compito di coordinare la comunità locale dà mostra di disprezzare la comunità locale medesima, facendosene beffe e non provando nemmeno il minimo pudore per le proprie eventuali scorrettezze, quale sarà mai la speranza per questa terra e per questo popolo?
Non ce l’ho con i Prefetti; ritengo, anzi, che in tanti svolgano bene il proprio lavoro.
Tuttavia, è quasi automatico che il mio pensiero vada a Carlo Alberto Dalla Chiesa, al suo modo di essere Prefetto, prima ancora che, purtroppo, martire della mafia. Era un altro stile, quello dei funzionari e dei politici, dei servitori dello Stato a qualsiasi titolo e con qualunque grado. C’erano meno lacrime e più fatti, meno tracotanza e più decoro. Anzi, mi correggo: non era un altro stile, era stile.
Se proprio Berlusconi è in vena di rimpianti, rifletto adesso, farebbe meglio a spostare l’ottica e a cambiare epoca. Pensando al generale Dalla Chiesa e a quelli come lui, avremmo davvero dei buoni motivi per piangere e per rimpiangere.

Anna Burgio

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