Gentilissimo Ministro del Lavoro Luigi Di Maio,
Le fa onore la sua azione di governo incentrata sull’impegno di scardinare alcuni equilibri e rapporti di potere verso una società più giusta e dalla parte dei più deboli, vorrei però metterLa in guardia sui pericoli che si addensano intorno al suo decreto dignità, soprattutto per la parte che riguarda i contratti a tempo determinato.
Parlo anche per esperienza personale e condivido appieno la sua affermazione di civiltà: “perché uno non vale l’altro”.
Con questa considerazione, relativa al turn over già in atto nelle aziende private, in special modo per le mansioni di tipo esecutivo, ha toccato un tasto dolente e pienamente condivisibile, cioè la pratica che consente ai datori di lavoro di sostituire il lavoratore, pur rivelatosi efficiente e valido nel suo lavoro, con un altro per la semplice considerazione che ha esaurito il termine dei mesi o proroghe previste dal Jobs Act. In altri termini, un’azienda privata prende un secondo lavoratore per sostituire il primo, per non dovere assumere quest’ultimo a tempo indeterminato.
Questa non è dignità, sono d’accordo, come è vero che uno non vale l’altro, perché non siamo numeri ma persone. La trappola in cui rischia di cadere il suo decreto dignità è per l’appunto questa, come ben spiegato da Claudio Tucci per il Sole 24 ore:
“una normativa più severa sui contratti flessibili unita all’aumento del 50% degli indennizzi, minimi e massimi, sui licenziamenti illegittimi nei contratti a tutele crescenti (da 4 a 24 mensilità si sale a 6 e 36 mensilità), rischia di non produrre l’effetto desiderato.
Semplicemente perché si disincentivano, contemporaneamente, entrambe le tipologie negoziali. In questo modo, e questa è la quarta trappola insita nel provvedimento, è che si finisce per moltiplicare il lavoro precario (come effetto di un ampio, ipotizzabile, turn over – se non, addirittura lavoro irregolare). Dopo un primo contratto a termine, infatti, difficilmente un’azienda assume a tempo indeterminato la risorsa, ma sarà portata a contrattualizzarne una nuova…”
Perché mai questo effetto moltiplicatore del lavoro precario? Perché appunto – spiega Tucci – “per rinnovare, o prorogare, un contratto a termine in corso, o se si vuole stipulare un nuovo rapporto a tempo di durata superiore ai 12 mesi, un’impresa, d’ora in avanti, sarà tenuta a indicare la causale; e, nel caso di nuove commesse, vale a dire di incrementi dell’attività ordinaria, per essere in regola, dovrà dimostrare, in particolare, che questi nuovi “carichi di lavoro” siano al tempo stesso, «temporanei, significativi e non programmabili».
Risultato? Che si riportano le aziende dentro un sentiero normativo molto stretto, con il rischio, concreto, di sbagliare e quindi di subire nuovi contenziosi da parte dei lavoratori, rendendo, peraltro, difficoltoso procedere alla stabilizzazione del rapporto, visto il simultaneo incremento dei costi (contributivi, lo 0,50%, sui rinnovi dei contratti a termine, e indennitari, in caso di licenziamento illegittimo).”
Se gli effetti pratici del suo decreto saranno davvero questi, ovvero la riduzione del rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato non oltre i 12 mesi, ampio turn over e disincentivi alla stabilizzazione degli stessi, come pensa Lei di apportare dei correttivi durante l’iter di conversione in legge del suo decreto, onde evitare l’abuso dei contratti a tempo determinato?
Mi permetto di segnalarLe queste osservazioni, Signor Ministro, per ricondurre la nobile ratio del suo decreto alla realtà dei fatti e delle pratiche che le aziende private, alcune delle quali a evidente partecipazione pubblica nelle quote azionarie di maggioranza, mettono ancora oggi in atto profittando delle leggi esistenti ed attingendo all’ampio bacino di disoccupazione giovanile, che è il vero scempio del nostro paese.
Perché se è vero che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non è parimenti vero e possibile, dal punto di vista della dignità e del futuro che si vuole garantire alle nuove generazioni, che l’Italia sia oggi una Repubblica fondata sul lavoro di tipo precario ad uso delle aziende che fanno e disfanno con l’ampio turn over garantito dalle leggi.
D’accordo sono aziende private ma, come lei ben sa, scontrandosi con il suo decreto contro “i poteri della borghesia capitalistica” per usare una categoria marxista (ancora attuale per leggere i rapporti di potere dal lato delle pratiche materiali), ogni azienda e cittadino ha obblighi di solidarietà verso la società più ampia e non può ricorrere ad libitum ai contratti a tempo determinato perché ha soltanto esigenze temporanee di lavoro per i picchi stagionali o necessità straordinarie.
Per chi sia ancora così ingenuo e disposto a “credere alla favola di Adamo ed Eva”, per citare un successo di Gazzè, presento un argomento inoppugnabile: se è vero che il datore di lavoro privato ha soltanto esigenze temporanee di lavoro, come mai è ampiamente diffusa la pratica sistematica di rimpiazzare una unità lavorativa “scaduta” con un’altra neoassunta senza soluzione di continuità?
E’ davvero così, che il contratto di lavoro a tempo determinato è soltanto l’effetto di un’esigenza temporanea e non sistematica di lavoro di tipo operaio? O c’è dell’altro, come una carenza strutturale di organico?
La regola dovrebbe essere il contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma questa regola di “dignità” viene ampiamente disattesa con conseguenze peraltro egualmente perniciose per la salute, i rapporti tra categorie di lavoratori e la società più ampia. Si fanno meno figli, sempre meno coppie di italiani convolano a nozze, l’indebitamento dei cittadini aumenta, c’è la guerra tra gli ultimi della catena. Bella dignità!
Per carità, la mia polemica non è certo rivolta a lei che da Ministro sta provando a scardinare certi meccanismi di relazioni asimmetriche tra datori di lavoro, che fanno il bello e il cattivo tempo, e i lavoratori ultimi della catena. Quindi il mio intento è di denuncia di ciò che accade, in particolar modo in Sicilia, sulla base di esperienze e testimonianze molto ma molto sincere e autentiche.
Le faccio un esempio.
Una squadra di calcio è composta da 11 titolari, ognuno nel suo ruolo e ognuno arbitro e gestore della propria porzione di campo nel caso si giochi a zona, quindi se viene a mancare un’unità lavorativa un bravo allenatore attinge, per coprire quella zona vacante, ad un giocatore della panchina per appunto sopperire ad una esigenza temporanea. Così non appena ritorna il titolare dall’infortunio o dalle ferie estive con la famiglia, il giocatore temporaneo lascia spazio al titolare e ritorna mestamente in panchina, ritornando ad ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati. Questa è una prassi consentita dalla legge e per certi versi legittima.
Ora accade in Italia qualcosa di assurdo ai limiti della legalità, perché le relazioni di potere tra datore di lavoro e classe dei disoccupati sono così sbilanciate a favore dei più forti che l’ultimo della catena, il disoccupato alla ricerca di un proprio sostentamento per sé e la famiglia, se ne ha una, accetta di fare il panchinaro chiamato alla bisogna, ma sa in cuor suo, non appena mette piede sul campo lavorativo, di essere a tutti gli effetti un titolare. Titolare di una posizione lavorativa non occupata da altri, perché posizione lavorativa vacante in organico, e tace, pur sapendo che il suo lavoro è produttivo e necessario per un servizio o una produzione, non garantita da altri lavoratori a tempo indeterminato che non ci sono.
Il panchinaro, quello che l’azienda avrebbe assunto per un’esigenza temporanea, è in molti casi un titolare. Questo accade in Sicilia e in altre parti d’Italia, prova ne è il fatto che non appena quella unità lavorativa cessa il termine di lavoro (36 mesi ora ridotto a 24) o raggiunge il limite di proroghe, ora portate da 5 a 4 in base al decreto dignità, la sua presenza necessaria viene rimpiazzata da un’altra unità lavorativa sempre a tempo determinato.
CTD (con contratto di lavoro a tempo determinato) vengono chiamati i lavoratori a tempo determinato in alcune aziende ed alcuni titolari (a tempo indeterminato) si meravigliano peraltro se questi giovani brillanti molto spesso laureati, anche con 110 e lode, reclamano un diritto all’assunzione a tempo indeterminato: “vogliono pure il posto fisso!”.
Embè, che ci sarebbe di strano in una Repubblica fondata sul lavoro a garantire il lavoro con la “L” maiuscola, cioè lavoro a tempo indeterminato e non il precariato a vita di queste generazioni? Non resta davvero altra strada per loro che l’emigrazione per lavoro all’estero?
Ecco che in alcuni ambienti di lavoro, fatta salva la disponibilità, la gentilezza e la collaborazione di molti colleghi illuminati, si verifica talvolta il contrasto, conflitto tra due categorie di lavoratori, gli iper garantiti a tempo indeterminato dal punto di vista del diritto, e i precari che vivono quotidianamente sotto l’ombra del ricatto e con la promessa di una stabilizzazione che soltanto raramente avviene di fatto. Se questa è dignità!
Ma veniamo al dato più degno di allarme sociale da fare impallidire non soltanto il più sensibile dei ministri, ma anche da fare intervenire il Presidente della Repubblica per rimediare a una grave situazione sociale, frutto di leggi passate sbilanciate a favore dei più forti.
L’abuso dei contratti a termine e l’ampio ricorso al turn over da parte delle aziende private, manco fossimo una squadra di calcio, è mancanza di rispetto e dignità per quei lavoratori che hanno speso anni di duro studio sulle sedie, a farsi i fianchi, per conseguire chi la laurea magistrale, chi il dottorato di ricerca, chi l’iscrizione ad albi professionali di altissimo profilo, in Sicilia specialmente e con il massimo dei voti: 110 e 110 e lode. Non si ha rispetto di questa mole di panchinari laureati, l’esercito di riserva più istruito e qualificato della storia della Repubblica, che accettano questo tipo di lavoro di tipo precario, qualunque esso sia pur di mantenersi, mantenere famiglia, progettare il futuro, in assenza di meglio.
Davvero questo è il massimo che lo Stato può garantire a questi giovani, se non altro incentivando le stabilizzazioni effettive, non quelle decantate in documenti di facciata che non soddisfano le esigenze di dignità di un uomo o donna lavoratrice che ha diritto a lavorare per farsi una famiglia e progettare il futuro. Davvero un’azienda privata non ha obblighi nei confronti dei propri lavoratori CTD, usa e lascia in panchina, per donargli una prospettiva di lavoro certo e garantito, il famoso posto fisso?
Perché non è lecito ambire al posto fisso, mantenere la famiglia, o sposarsi, fare dei figli e pagare il mutuo? Cosa c’è di sbagliato nel desiderare ciò?
Il mio auspicio è che il ministro Di Maio e la squadra di governo recepiscano queste considerazioni per approntare gli strumenti legislativi necessari a garantire la vera dignità a chi lavora e a chi ha lavorato bene, ovvero il posto fisso. Mentre le aziende private, quantunque oberate da leggi e tassazione, dovrebbero fare uno sforzo in più per tenersi qualunque lavoratore abbia dimostrato diligenza e impegno nel proprio lavoro, perché gli obblighi di solidarietà sociale verso le persone trascendono i numeri e bilanci che si vogliono sempre attivi.
Grazie signor Ministro per l’impegno finora dimostrato e non tema di scontrarsi coi poteri forti, perché essi capiranno un giorno che un impiegato soddisfatto è il migliore acquirente dei propri beni. E il fatturato di un’azienda è soltanto l’indice riduttivo di un benessere che si deve estendere un po’ a tutti, onde evitare motivi di insoddisfazione, frustrazioni e conflitti sociali tra le categorie dei più deboli. Come spesso avviene.
Rinnovandole la mia personale fiducia,
colgo l’occasione per augurarLe il buon lavoro che già sta portando avanti con tenacia.
Il direttore di questa piccola testata giornalistica,
Davide Cufalo