Non si può chiudere gli occhi mentre si guida. Se li chiudessi, io vedrei il mare. Nel mare è la mia vita, lontano da esso c’è sempre la percezione di qualcosa che manca. Anche a non vederlo, mi basta sapere che è vicino, che c’è. Ne percepisco l’odore, anche il rumoroso andare e venire delle onde in inverno. Nel mare ha vissuto mio padre, dal mare io e i miei abbiamo aspettato per anni di vederlo tornare, per poi vederlo andare via di nuovo, inesorabilmente. Come le onde, per l’appunto. Il mare mi ha dato paura, per la sorte di mio padre, delle persone a me care per che per mare andavano, e mi ha dato rabbia, per il senso dell’assenza, per il dolore della lontananza. Eppure amo il mare, ormai so che farne a meno è una sofferenza. Sono un’isolana, un’isolana cresciuta sulla costa.
Vivere in un’isola a volte corrisponde a sentirsi un’isola.
L’ultima tragedia di Lampedusa ha scatenato in me, com’era inevitabile, migliaia di considerazioni, un flusso ininterrotto di pensieri sull’uomo e sul mondo, sulla morte e sulla vita.
E sull’isola.
Se chiudo gli occhi vedo il mare di Lampedusa. A Lampedusa ci sono stata in vacanza, tanti anni fa. Dopo tre giorni – dopo aver visitato l’isola palmo a palmo e visto tutto ciò che c’era da vedere – mi sono sentita in trappola, mi è sembrato che mi mancasse il respiro. Io sono isolana, ma quel piccolo lembo di terra con tutto il mare attorno mi restituiva fortissima l’idea dell’isolamento.
Chi vive in un territorio così piccolo – senza legami e senza ponti con la terraferma – percepisce per intero il senso del limite. Limite vuol dire non avere strutture, non avere ospedali attrezzati, biblioteche, diversi tipi di scuole, non avere servizi. Vuol dire non avere la libertà di scegliere.
Eppure Lampedusa per i lampedusani dev’essere com’è il mare per me: forte il senso del limite che ci ha tolto e ci toglie qualcosa, altrettanto forte il legame, l’attaccamento viscerale. Conosco gente che ha vissuto e vive a Lampedusa trovando la dimensione della serenità e dell’equilibrio; conosco gente che sa amare quello che ha, perché ha la piena consapevolezza di quello che è. Purché, però, si possa guardare la linea dell’orizzonte sul mare immaginando il futuro. Se sulla linea del mare si avvistano cadaveri e orrore, miseria e pietà infinita, la storia cambia, e cambia di molto.
Se oggi, anche solo per un attimo, provo a vestire i panni di un lampedusano, perde di peso ogni parola che, dalla mia isola/terraferma, io possa pronunciare. Ogni parola sulla mia bocca, o sulla punta della mia penna sa di retorica, di demagogia, anche di qualunquismo, volendo.
Perché i lampedusani stanno vivendo una beffa che rischia di diventare infinita, e che lascia segni e ferite sulla loro pelle, molto più del sole africano che quella pelle sa anche bruciare.
Ci siamo tutti scatenati a volere affrontare la questione dal punto di vista delle leggi sull’immigrazione, della necessità di regolare i flussi, dell’opportunità che ognuno se ne stia a casa propria, della solidarietà o del respingimento dei migranti. Ma, anche a voler mantenere distinti popoli e etnie, c’è un problema che si pone e di cui non si parla. I lampedusani sono cittadini italiani, pagano le stesse tasse di tutti gli altri, pur avendo minori servizi. Da cittadini italiani, ormai da anni sono quotidianamente costretti a vivere con l’angoscia, ad assistere alla tragedia.
Lampedusa è piccola, l’abbiamo detto, e io mi chiedo con quale sentimento di speranza e di ottimismo potrà diventare adulto un bambino che, nel corso della sua giornata, si imbatte in morti, in lacrime, in barconi fatiscenti, in uomini e donne disperati che vengono lasciati a vivere in condizioni disumane.
Se io davvero fossi un lampedusano, se fossi il genitore di quel bambino – costretto a crescere solo, isolato, abbandonato da quella che dovrebbe essere la sua società e cullato dall’orrore – vorrei che le mie parole fossero sassi.
Vorrei poter spiegare con parole taglienti che cosa vuol dire compatire, nel significato esatto di patire insieme, che cosa vuol dire soccorrere, accogliere, condividere, e magari anche sapere riservare un sorriso e un gesto buono a chi sta soffrendo; vorrei poter raccontare cosa si prova, quali tracce può lasciare dentro, come si vive, come tutto questo cambia la vita, e la cambia per sempre.
Vorrei davvero sapere adoperare le mie parole come sassi pesanti. Perché se io fossi un lampedusano – esattamente come i veri lampedusani – i sassi di pietra non li saprei usare; perché, se fossi un lampedusano – esattamente come i veri lampedusani – avrei maggiore senso dell’etica, delle regole, della solidarietà e del rispetto di tanti pezzi della cosiddetta società civile che a vario titolo dalla mia isola, disperata e bella, si trovano a passare.
Anna Burgio
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