Franca, Amina e le donne che danzano
Franca non aveva ancora diciotto anni, li avrebbe compiuti il nove gennaio. Era il giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre 1965. Franca era a casa con la sua famiglia quando Filippo, prepotente pretendente, irruppe nell’abitazione e la portò via, lasciando dietro di sé distruzione e paura.
Aiutato da complici, la tenne segregata per una settimana, durante la quale Franca fu maltrattata e violentata, usata come oggetto di carne.
Con la sua mentalità di “picciotto” arrogante e violento, Filippo era sicuro di avere scelto la giusta strada per riprendersi quella che era stata la sua fidanzata. Perché questa era la prassi, questa era la legge: un rapimento e una violenza potevano restare impuniti se la ragazza acconsentiva al matrimonio riparatore, se sposava l’uomo che l’aveva disonorata, togliendole con la forza ciò che veniva considerato il bene più prezioso per una fanciulla, la sua verginità. Le ragazze non si ribellavano. Non potevano, non lo consentiva loro il senso dell’onore, la vergogna, la famiglia che sceglieva al loro posto.
E invece Franca scelse di dire no, e la sua famiglia con lei. Con lei suo padre, Bernardo, contadino senza istruzione ma ricco di dignità e di decoro. Con lei il suo fidanzato, che scelse di sposarla, nonostante il paese continuasse a mormorare.
Il paese era Alcamo, in Sicilia. Lei era Franca Viola.
Amina aveva quindici anni, nell’estate del 2011. Stava tornando a casa da scuola, quando fu rapita da un uomo, portata in un bosco e stuprata. Anche in questo caso, il violentatore avrebbe potuto evitare il carcere se la famiglia della ragazza fosse scesa a patti concedendogliela in sposa. A differenza della storia di Franca, per Amina le nozze riparatrici ci sono state. Il matrimonio è durato sei mesi, durante i quali la giovane è stata sottoposta a ulteriori violenze, insulti e maltrattamenti da parte del marito. Il matrimonio è durato sei mesi, perché, nel marzo del 2012, Amina ha deciso di porre fine alla sua sofferenza e si è tolta la vita ingerendo veleno per topi. È morta per strada, le sono stati negati dignità e rispetto anche nel momento della morte, perché il marito, risentito dal gesto della ragazza, l’ha trascinata fuori di casa tirandola per i capelli. Oggetto di carne, anche lei, come Franca.
Nel corso di un’intervista successiva alla morte, la madre della ragazza avrebbe dichiarato che aveva dovuto concederla in sposa al suo stupratore, perché non poteva correre il rischio che la figlia restasse nubile e senza futuro. Così Amina è morta da sposata, a sedici anni, nel paese che l’aveva vista crescere e sognare un futuro sereno.
Il paese era Larache, in Marocco. Lei era Amina El Filali.
Lo scorso 14 febbraio ha avuto luogo in centinaia di Paesi del mondo One Billion Rising, flash mob contro la violenza sulle donne.
“Un miliardo di donne che subiscono violenza sono un’atrocità. Un miliardo di donne che danzano una rivoluzione”. Questo il messaggio e lo slogan della giornata, nel corso della quale le donne hanno ballato sulle note della canzone “Break the chain” (spezza la catena).
In questi giorni ho sentito e letto di tutto: che le strade per combattere la violenza devono essere altre, che la danza è un’esperienza troppo gioiosa perché sia usata come protesta, che tutte quelle donne sono sembrate principalmente ridicole o, al più, piuttosto tristi.
Io penso che quelle donne hanno danzato perché hanno voluto danzare. Hanno tenuto in movimento piedi, e mani, e testa, e cuore. Le donne hanno scritto sulla loro pelle che cosa significa violenza e sopraffazione. E non è soltanto la violenza fisica, non è soltanto la molestia, lo stupro. È l’ammiccamento, la valutazione della loro esistenza sulla base del loro aspetto, è la sottovalutazione della loro capacità di decisione.
Se le donne decidono che vogliono danzare, per protesta o per gioia, per speranza o per rivoluzione, fanno bene a danzare.
Hanno fatto ciò che consapevolmente avevano deciso di fare. Nell’espressione della propria volontà c’è il succo della rinascita.
È la volontà che ha espresso Franca, è la volontà che non ha potuto esprimere Amina.
Mi piace pensare che il 14 febbraio anche Franca abbia danzato, magari solo nel chiuso della sua casa di Alcamo; e – sarà pure un pensiero romantico e sentimentale – mi piace pensare che, in qualche parte dell’universo, abbia danzato anche Amina.
Anna Burgio
Anch’io ho danzato in piazza il 14 febbraio, ho danzato con le lacrime agli occhi, forse perchè conoscendo l’inglese sapevo il significato delle parole della canzone “Break the chain”. Quel pomeriggio in piazza Duomo, non m’importava sbagliare qualche passo o essere forse la più “attempata” del gruppo danzante. L’importante è esserci, specialmente dimostrare a chi subisce violenza fisica, sessuale, psicologica ed economica, che non è sola!
p.s. un bell’articolo. Complimenti