Per Fabiana, con dolore

Per Fabiana, con dolore

Fabiana ha sedici anni. Non ci vuole molto a immaginare cosa passi per la mente e per il cuore a quell’età, quali speranze, quali desideri, quali e quanti progetti.
Fabiana avrà sedici anni per sempre. Così recita il messaggio del corteo che la ricorda e la saluta, a Corigliano Calabro.
Fa impressione sentire e leggere che a darle fuoco ancora viva, ad ucciderla sia stato il suo “fidanzatino”.
“Fidanzatino” è una parola tenera che richiama alla mente i primi innamoramenti, i primi sogni in comune, le prime palpitazioni; difficile associare una tale parola a un atto tanto crudele, tanto brutale, tanto bestiale da togliere il respiro anche al solo pensiero.
Ho due figli adolescenti, è immediato immedesimarsi nei panni dei genitori della vittima, ma anche in quelli dei genitori del carnefice, è immediato e atroce. Con i nostri figli il loro padre e io parliamo di tutto. Assieme ci siamo chiesti il perché di tanto disprezzo per l’essere umano e per la vita. Abbiamo riflettuto sull’influenza della televisione, dei giornali, della rete; ci siamo chiesti se una così alta percentuale di casi di violenza sulle donne non esistesse anche in passato, ma fosse soltanto meno divulgata; ci siamo domandati se tanto parlarne, in maniera così morbosa da diventare becera, così strumentalmente scabrosa, solo per aumentare l’audience, non faccia piuttosto male, perché incita all’emulazione, perché esalta le menti già fragili, perché implicitamente rischia di autorizzare e giustificare altra violenza. Non siamo riusciti a darci risposte.
La giovane età rende senz’altro tutto, se è possibile, ancora più disumano. La gravità del gesto, tuttavia, resta intatta in senso assoluto.

Detesto la parola “femminicidio”, come detesto ogni parola che fa distinzione di genere, se usata perché si deve difendere una categoria. Le differenze di genere dovrebbero essere una ricchezza, piuttosto. Detesto la parola “femminicidio” anche se so che è necessaria, anzi, la detesto proprio perché è necessaria.
Un omicidio è un omicidio, e la sua gravità consiste nel fatto che è un’azione spregevole nei confronti dell’essere umano; non dovrebbe essere necessario distinguere tra omicidio e omicidio, solo perché ad essere uccisa è una donna. Eppure oggi più che mai è necessario distinguere, difendere le donne, creare i presupposti per una nuova cultura.
Questa nostra società ha impiegato tanto tempo a costruire una cultura al femminile, attraverso anni di lotte, rivendicazioni e affermazione dell’identità e della peculiarità delle donne. E invece ci ritroviamo, oggi, a rivivere situazioni che fanno ribrezzo, anche perché sono legate ai rapporti di potere nell’ambito dei legami affettivi, alla sopraffazione di una persona sull’altra, quando invece il rapporto dovrebbe essere paritario; e ci ritroviamo, anche, a sentire spacciare tutto questo come amore, magari distorto, ma pur sempre amore.
Credo che una cultura dell’immagine, sempre più presente al punto da diventare dirompente, abbia determinato un ritorno della visione delle persone – non solo le donne, ma principalmente donne – come oggetti fruibili e, di conseguenza, punibili quando non sono disposti ad essere fruiti.
È un discorso lungo, complesso e troppo delicato per poter essere liquidato in poche righe. Resta il fatto che le donne continuano a subire violenza e a morire solo perché sono donne, in un’epoca in cui essere donne sembra diventare un problema.
Mi chiedo come sia possibile che le donne, che sono la maggioranza dell’umanità, possono ancora e sempre essere minoranza oppressa, piuttosto che soltanto – come direbbero quelli che amano le storie a lieto fine – l’altra metà del cielo.
Intanto, ancora e purtroppo, Fabiana avrà sedici anni per sempre.

Anna Burgio

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