U tirrimotu
La radio mi ricorda che sono trascorsi quarantacinque anni dal terremoto nella Valle del Belice. Si parla del poco che si è fatto, del tanto che ci sarebbe ancora da fare – a distanza di quasi mezzo secolo! – delle speculazioni e delle trascuratezze.
Il terremoto del Belice ha una grande parte nella mia memoria privata. Ritorna adesso con le parole di mio padre.
La sera del 14 gennaio del 1968 la mia famiglia andò a dormire come al solito, alla solita ora, dopo avere cenato e guardato un po’ della solita televisione in soggiorno, come migliaia di altre famiglie italiane.
Alle cinque di mattina lo squillo insistente del campanello, da giù, dal portone, svegliò me e mia moglie, che ci spaventammo così come ci si spaventava all’arrivo di un telegramma.
Il campanello che suona alle cinque del mattino annuncia senz’altro sciagure, non può portare altro che sciagure.
Non appena ci affacciammo al balcone di pietra della nostra cucina comprendemmo immediatamente, tuttavia, che se di sciagura si trattava, era una sciagura che non riguardava soltanto noi. C’era movimento per le strade, gente che correva, alcuni erano addirittura in pigiama.
Scorgemmo allora sotto casa Teresina, una mia cugina, e contemporaneamente la sentimmo urlare, rivolta verso di noi: “U tirrimotu, u tirrimotu!”.
A quel punto eravamo svegli tutti, soltanto mia figlia più piccola dormiva ancora beatamente, nel centro esatto del lettone.
Si svegliò la bambina, chiamata dalla mamma, e negli anni a venire portò conservato il ricordo di quei momenti, di un plaid scozzese gettato di fretta a coprirle le spalle e le gambe, e di sua madre che la prendeva in braccio, senza fermarsi a metterle le scarpe, e, ancora, di sua madre che scendeva le scale di quel terzo piano, sempre con lei in braccio, con lei che era scalza.
Andammo a casa di Luzza mia madre, quella casa che diventò per qualche giorno – giusto il tempo per rassicurarci e sentirci nuovamente al sicuro – rifugio, braccio di molo, porto tranquillo per tutto il parentado.
Luzza mia madre e Calù mio padre abitavano adesso in una casetta che, oltre al pianterreno, aveva solo il primo piano, il loro. Davanti, un grande spiazzo; di fianco, la bassa scuola elementare, quella scuola tanto familiare ai bambini, che la vedevano anche dal balcone di casa nostra e nel cui piazzale andavano a giocare, per esempio, a sciddicaloru, lasciandosi scivolare dai passamani che accompagnavano i pochi gradini che conducevano al portone d’ingresso.
La casa della nonna Luzza presentava dunque meno pericoli, in caso di crolli.
La casa era piccola, giusto una stanza di soggiorno e la camera da letto, oltre a un minuscolo cucinino e al bagno.
Per i due anziani era più che sufficiente. Eppure ci vivemmo in tanti, in quei giorni, e a guardarci da fuori si sarebbe detto che eravamo anche felici.
La sera il pavimento del soggiorno si riempiva di coperte che si erano miracolosamente moltiplicate, e ognuno trovava da dormire come poteva, dove poteva.
Gino, mio fratello più piccolo, sin dalla prima sera aveva praticato quella che sarebbe diventato un’abitudine, nel corso di quei giorni, quasi un rito: prima che tutti ci coricassimo, preparava una piramide di bicchieri di vetro, in un equilibrio fermo, ma sufficientemente instabile da crollare, svegliando tutti, se si fosse verificata una nuova scossa.
Quando la mattina del 15 gennaio fece giorno, dopo quel primo scampolo di notte passata fuori casa, sapemmo che ciò che il paese aveva sentito era stato soltanto l’eco del terremoto vero, quello che aveva scosso e dilaniato la Valle del Belice.
Non esisteva più Gibellina, non esisteva più Montevago. Per molte persone, per molte famiglie non esisteva davvero più nulla.
Noi tornammo lentamente nelle nostre case. Potevamo dirci fortunati.
Anna Burgio