C’era una volta un piccolo ponte… che l’incuria degli umani trascurò.

C’era una volta un piccolo ponte

ponteC’era una volta un ponte, un ponte piccolino, quasi banale nella sua piccolezza. Ma era bello anche solo da guardare, con le sue sponde in pietra, con le sue arcate antiche che s’immergevano nel piccolo fiume che passava di sotto.
Quel ponte era lì da sempre, era un tutt’uno con il paesaggio, tanto che tutti avevano dimenticato che paesaggio non era. Non ricordando che si trattava di opera umana, tutti avevano tralasciato di prendersene cura. E poi, come dicevo, il ponte era piccolo e le piccole cose spesso appaiono inutili.
C’era un contadino che viveva in quella piccola zona del mondo. Per lui il ponte inutile non era, perché quel ponte, proprio quel ponte divideva in due la sua esistenza.
Da un lato si trovava la sua casa: sua moglie, i suoi figli, il letto in cui dormiva, la cucina in cui consumava i suoi pasti, la veranda con la sedia su cui la sera, fumando un sigaro, lasciava riposare le sue ossa stanche.
Dall’altro lato c’era il suo orto: la cicoria da mangiare col pane per cena, i finocchi per l’insalata, le arance che tanto bene facevano ai figli, i limoni per condire ogni cosa.
Per il contadino il piccolo ponte era l’anello di congiunzione di due parti importanti della sua vita. Grazie ad esso lui e i suoi potevano esistere, vivendo da un lato con ciò che veniva prodotto dall’altro.

Quando, con un lamento disperato, il piccolo ponte si spezzò in due, era una tersa mattina di gennaio. Il contadino lo aveva già attraversato, con il suo carretto, per prendersi cura dei suoi frutti. Il ponte cigolò, stridette, scricchiolò a lungo, quasi a dare il tempo all’uomo di rialzare le spalle curve sul terreno e voltarsi a guardarlo. Poi si lasciò andare con uno schianto, sulle acque placide del fiume.
“Oh” gemette il contadino “e come si fa, adesso?”
Dall’altro lato, sua moglie si affacciò correndo alla porta, non appena sentito il boato.
“Oh” gemette la donna “e come si fa adesso?”
I due coniugi si guardavano da una parte all’altra del ponte distrutto e sembrava loro che anche una vita intera fosse stata spezzata a metà.
Accorsero in tanti, chi perché aveva sentito il rumore, chi perché richiamato da altri che facevano girare la notizia di bocca in bocca.
Arrivarono muratori, carpentieri e falegnami, che avevano lasciato il proprio lavoro per correre in soccorso del contadino.
“Non ti preoccupare” gli dissero “prima che faccia notte ricostruiremo il ponte, lo faremo più sicuro e più bello di prima. Se uno di noi è in difficoltà, la cosa più importante è dargli aiuto subito; riserviamo i commenti a quando tutto sarà a posto, a quando non avremo nient’altro da fare e potremo spendere le nostre parole per far passare il tempo.”
E si misero subito al lavoro.

Fuori di parabola:
Il crollo del ponte sul fiume Verdura, lungo la strada statale 115 Sciacca- Agrigento, sta creando una situazione di disagio gravissimo per le migliaia di persone che quella strada devono percorrere ogni giorno. È la strada che collega le province di Agrigento e Trapani, che conduce all’aeroporto Birgi, che consente il trasporto delle merci su gomma in una buona parte dell’isola, che permette a tantissimi pendolari di spostarsi quotidianamente per raggiungere la scuola o il posto di lavoro.
È anche la strada dei miei viaggi e dei miei miraggi, quelli che ho preso l’abitudine di riportare qui.
La mia preoccupazione non è strettamente legata al ponte e al suo crollo, ma a ciò che essi rappresentano – simbolicamente, ma nemmeno poi tanto – per questa nostra Sicilia.
Siamo inseriti in un’Europa che è proiettata verso la tecnologia avanzata, poiché considera le infrastrutture e la loro manutenzione come un dato di fatto; facciamo parte di un’Italia che si dilania nel dibattito sull’utilità della TAV e sul suo impatto ambientale; ci viene prospettata la possibilità di un ponte sullo Stretto come panacea di tutti i mali della nostra viabilità. Poi crolla un ponte costruito nel 1870 e una parte della Sicilia si immobilizza.
Mi chiedo: a quale mondo apparteniamo? Qual è, davvero, il nostro posto?

Anna Burgio

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