Ritorno a Macondo. Un ponte crolla e paralizza due intere province…

Ritorno a Macondo

El-imaginario-MacondoIl piccolo ponte è ancora interrotto. I miei viaggi si allungano, prendono una via più tortuosa e meno sicura. Mi guardo attorno. Tutto mi sembra irreale e surreale.
Mi torna in mente Macondo.
La prima volta che sono stata a Macondo avevo gli occhi innocenti e il cuore ingenuo di un’adolescente. Meraviglia e stupore mi hanno accompagnato pagina dopo pagina, frase dopo frase.
Facevo fatica a raccapezzarmi, nella trama intricata delle figure che per Macondo si muovevano, ora in mezzo alla pioggia durata per anni, ora alla ricerca di parole dimenticate.
Su un grande foglio bianco, tentai di ricostruire l’albero genealogico delle numerose generazioni della famiglia Buendia, per non perdermi nell’intreccio delle parentele, nella confusione dei nomi ripetuti. Troppi Josè Arcadio, troppi Aureliano popolavano le righe del libro che imparavo ad amare; e io ero tanto giovane, forse troppo per riuscire ad andare al di là della complessità della storia.
Da allora ho preso l’abitudine di ritornare a Macondo ogni due o tre anni, e ogni volta mi sono trovata di fronte alla scoperta di un mondo sempre nuovo.

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.

È questo l’incipit di “Cent’anni di solitudine” il libro del premio Nobel Gabriel Garcia Marquez edito per la prima volta nel 1967.
Profondamente intrisa di realismo magico, tra realtà e finzione l’opera richiama la doppia valenza della solitudine: quella dei popoli sudamericani e quella dell’uomo come individuo. È un libro denso, carico di personaggi e di significati, di storie nella storia, di uomini e di donne che non si dimenticano facilmente.
ponte4Transito per chilometri e chilometri di strade pressoché di campagna per aggirare un ponte di nemmeno cento metri e – anche se il parallelo è azzardato – mi chiedo adesso se, come i sudamericani, anche noi siamo stati destinati a cent’anni di solitudine, per scoprire poi che tutto era già scritto.
Ho deciso, è tempo di rileggere il romanzo di Garcia Marquez. Capisco adesso che torno tra quelle pagine quando la necessità di immergermi in un mondo visionario si fa forte per – paradossalmente – schiarire ombre del mondo reale.
Un ponte crolla e paralizza due intere province e non c’è soluzione immediata, come se una soluzione immediata non fosse possibile; tutto ciò determina separazione, in qualche modo solitudine. Anche questa è un’ombra del mondo reale. Fatico a comprendere, con la sola razionalità.
Eppure credo che non possiamo rassegnarci a vivere costruendo sempre gli stessi pesciolini con un oro fuso e rifuso, come faceva il Colonnello Aureliano Buendia. Una strada ci deve essere, e non è solo quella del ponte sul fiume Verdura, perché questa Sicilia esca fuori dall’isolamento e dalla solitudine. Io, che mi sento siciliana in ogni cellula, ho bisogno di sentire che appartengo anche ad altro, a un mondo più vasto di cui la mia Sicilia sia parte integrante.
Eccola, la forza del paradosso: torno a Macondo, vivo cent’anni di solitudine per sentirmi parte dell’umanità.
Anna Burgio

3 Commenti

  1. Cara Anna, mi hai fatto venire voglia di rileggere “Cent’anni di solitudine”, forse il più bel libro che ho letto. L’albero genealogico è un prezzo che abbiamo pagato tutti per non smarrirci 🙂
    La Sicilia è magnifica e non solo voi, che siete siciliani in ogni cellula, dovete difenderla. La Sicilia è patrimonio di tutti e dovrebbe riguardare tutti.

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